Ne sono accadute di cose, in questo anno spesso trascurato rispetto al suo vicino ‘68, in ambito musicale. Le prime notizie eclatanti sono giunte dall’Inghilterra: il 30 Gennaio i Beatles hanno tenuto quello che hanno annunciato come loro ultimo concerto, niente di meno che sui tetti della Apple; il 3 Luglio ad Hartfield, Brian Jones dei Rolling Stones è stato trovato sul fondo della piscina della sua villa, deceduto per overdose di eroina e conseguente annegamento, episodio seguito due giorni dopo da un concerto gratuito ad Hyde Park della band in sua memoria, al quale hanno assistito quasi 500.000 persone.
In territorio Statunitense, invece, c’è stato il Festival di Woodstock, a Bethel, nello stato di New York: dal 15 al 18 Agosto la manifestazione ha visto alternarsi su un palco i nuovi mostri del rock: Santana, Janis Joplin & The Kozmic Blues Band, The Who, Joe Cocker, Crosby, Stills, Nash & Young, Jimi Hendrix e ancora tanti altri; nato come festival di provincia, ha finito per richiamare più di 400.000 giovani.
In questo anno sembra che la musica sia stata liberata da tutte le sue briglie ed abbia raggiunto apici di espressività inimmaginabili, lasciando ben sperare sulle possibilità del futuro. Ci si è accorti anche di un incremento della collaborazione artistica, culturale e politica.
L’innovazione c’è stata in ogni ambito musicale. Se ascoltiamo album come “Crosby Stills and Nash” dell’omonima band statunitense, ci accorgiamo che, pur rimanendo ancorato alla forte anima folk del gruppo, lascia spazio ad atmosfere “incantate”, nuove per il genere; in “Judy Blue Eyes” interpretato dalla band al Festival di Woodstock, percepiamo la forte influenza che hanno avuto su di loro i Beatles, come del resto potevamo già avvertire in successi di Bob Dylan come “4th Time Around” del ’66 che perdendo la sua matrice folk era andato già a spostare il proprio baricentro musicale verso il rhythm ‘n’ blues per poi sviluppare il genere folk rock e mostrava il suo apprezzamento per i Fab Four tanto nella cura dell’arrangiamento quanto nell’utilizzo di parti vocali multiple.
Mentre James Brown scriveva l’esplosiva “Mother Popcorn”, Miles Davis, risentendo dell’influenza di questo come di altri artisti, andava rivoluzionando il suo modo di fare musica ed il jazz stesso, producendo brani come “Frelon Brun” libero da schemi melodici e ricco di sonorità nuove ed inaspettate, “Mademoiselle Marby” (dedicato alla sua nuova compagna Betty) delicato, ipnotico, “astratto”, vi si avvertono, per altro, richiami a “The Wind Cries Mary” di Jimi Hendrix; entrambi sono stati pubblicati nell’album “Filles de Kilimanjaro” e Herbie Hancock vi ha introdotto il suono di un piano elettrico mentre troviamo Ron Carter al basso elettrico. Anche nel disco “In a silent way” e nell’omonimo brano troviamo organo e chitarra elettrici, per un’atmosfera ancora una volta irreale ed evanescente. Insomma, una svolta elettrica di Davis che ha lasciato tutti a bocca aperta ed ha aperto un nuovo genere che potremmo definire jazz rock o per altri versi fusion.
Da Los Angeles, invece, in questo anno si fa sentire sempre più prepotentemente un altro sperimentatore incredibile: Frank Zappa, conoscitore d’ogni genere musicale, se da una parte non perde il gusto per la satira e lo scherzo, dall’altra riconferma la sua impressionante versatilità passando brillantemente da un genere all’altro, mettendo a frutto la sua passione per musiche apparentemente antitetiche come quella d’avanguardia, il pop rock e persino il doo-woop di fine anni ’50, senza rinunciare alla classica, al jazz ed alla musica concreta. Dalla sintesi di tutto questo, dopo aver anche rimescolato la formazione della sua band in “Hot Rats” mettendo insieme Captain Beefheart, i violinisti J. L. Ponty e Don “Sugar Cane” Harris, Underwood e un’imponente sezione ritmica, è nato un capolavoro come “Peaches en Regalia”, una piccola suite dall’organizzazione complessa ed affascinante in cui più trame si intrecciano e fiati, tastiere e chitarra elettrici pur disegnando melodie a tratti apparentemente “stupide” (lo stesso Zappa ha già definito in passato le sue composizioni “stupid songs”) riescono a creare un pezzo multiforme dall’impasto sonoro personalissimo.
Più di qualche parola va spesa anche sui californiani The Doors che negli anni precedenti avevano unito con successo elementi blues, psichedelia e jazz: Ray Manzarek, riferimento ritmico per il gruppo, capace di suonare contemporaneamente il basso con la mano sinistra e la linea melodica alla tastiera con la destra, usando un organo Vox Continental, caratterizza il timbro della musica prodotta da questa band. Con il loro “The Soft Parade” i Doors non ottennero immediatamente un successo pari a quello degli album precedenti; il cambio di direzione musicale e l’introduzione nelle sezioni musicali di orchestre e strumenti a fiato non fu del tutto apprezzato e compreso ma la magnificenza di un brano come “Touch me” composto dal chitarrista Robby Krieger, è attestata dalla veloce scalata in classifica al terzo posto della Billboard Hot 100 chart: pervaso da un ritmo trascinante, al tema principale più vivace, si alternano atmosfere sognanti e romantiche, in un’architettura del suono “magica”. Forse non ha aiutato all’immediata comprensione di questo capolavoro il fatto che negli ultimi live, Morrison sia stato più volte arrestato per atti osceni e disordini e che a Miami il 1° Marzo, evidentemente sotto effetto delle droghe abbia provocatoriamente mostrato i genitali al pubblico, durante l’esibizione.
In territorio inglese già dal 1968 si andava affermando e sviluppando sempre più il cosiddetto hard rock: gli Who, coi loro colossali riff di chitarra e la batteria martellante ed il particolare stile operistico del canto, partendo da un rhythm ‘n’ blues “abrasivo” hanno fatto evolvere il loro suono giungendo l’anno seguente col loro quarto album “Tommy” ad una vera e propria rock opera, riallacciandosi in qualche modo alla profetica “A whiter shade of pale” realizzata dai Procol Harum che nel 1967 inaugurava il rock progressive.
Non sono da meno i Deep Purple che hanno realizzato il loro “Concerto for Group and Orchestra” portando insieme la loro rock band e la Royal Philharmonic Orchestra di Londra sul palco del Royal Albert Hall, unendo musica rock e classica. Sperimentazioni ardite e di impatto grandioso sul pubblico.
Altre sfumature di un “rock duro” le propongono i Led Zeppelin che già nel mese di Gennaio, appena l’anno nuovo comincia, pubblicano il loro primo album omonimo, stravolgendo brani di origine blues con forti influenze dalla psichedelica. La copertina dell’album è geniale: rielaborando un fotogramma del disastro dello Zeppelin LZ 129 Hindenburg avvenuto il 6 maggio 1937 il gruppo crea subito un simbolo forte e riconoscibile in tutto il mondo, che si lega fortemente alla loro musica (il fuoco e le fiamme che animano il loro rock blues).
È stato un anno che potremmo definire “schizofrenico” per varietà di produzioni ed espressioni musicali; un anno in cui, come mai prima era avvenuto, c’è stata un’evidente e continua fusione di generi e stili, a riprova evidente del fatto che molti artisti di diversa provenienza in questo periodo si ascoltano gli uni gli altri ed attingendo a ciò che ascoltano riescono ad arricchire a velocità ed in direzioni inaspettati il proprio lavoro. Principale denominatore comune, pare essere il rock, punto d’origine e base primaria di comunicazione fra stili e generi.
E se tra gli esseri umani di questo mondo ci è parso di vedere dei “marziani” in ambiente musicale, come quelli citati, forse in un magico momento di “contatto” e comunicazione tra la terra e lo spazio extraterrestre, ecco che il 21 Luglio 1969, Neil Armstrong e Buzz Aldrin, sono sbarcati per la prima volta nella storia dell’umanità sulla luna, con la missione Apollo 11. Sembra profetico, allora, David Bowie che poco prima in “Space Oddity” parlava di “alienazione” tramite la storia del Maggiore Tom e del suo viaggio nello spazio…
Laura Mancini