Joey Calderazzo a Terni: non è Keith Jarret ma non prendetevi gioco di lui

Il concerto di Joey Calderazzo con A. J. Brown al contrabasso

A. J. Brown – Ph. by Tommaso Nuti

Sabato 27 Febbraio, nell’ambito di “Terni in Jazz 2010” Joey Calderazzo presenta “Jazz Season” insieme a tre giovani musicisti della scuola di New York, presso l’Auditorium Di Palazzo Gazzoli, proponendo un mix di magnifici piano solo caratterizzati da grande lirismo e performance d’insieme virtuosistiche e dal forte groove, per una serata non priva di sorprese, realizzata dall’Associazione Charlie in collaborazione con Unione Europea, Regione Umbria e Comune di Terni.   Si passa da standards rivisitati a composizioni originali del pianista ad  improvvisazioni; ascoltiamo “Speak Low”, l’immancabile “Waltz for Debby” di Evans per arrivare a “Conform” e “Blue In Green” o “I’ve never been in love before”.

Il pianista carica da subito la sua performance anche col movimento del corpo, accompagnato con “delicatezza” da A. J. Brown al contrabbasso, da Brevan Hampden alle congas e dall’esplosivo Larry Draughn Jr. alla batteria. Abbandona di tanto in tanto il trio ma anche in quei momenti lo vediamo “coinvolto” nella perfomance: tiene il tempo con il movimento delle gambe, incita ad alta voce gli altri. Il batterista nei suoi assolo ha un’aria compiaciuta; è fantasioso e protagonista (a tratti forse fin troppo) ma i compagni lo guardano sorridendo con ammirazione.

Calderazzo non sembra, in questa serata, trovare pace e abbandona in una prima occasione la tastiera per fare cenno al fonico di abbassare l’amplificazione: appare nervoso ma questa tensione sulle prime sembra tramutarsi per  assurdo in un’espressione musicale accesa, briosa e accattivante. Si agita tanto sul suo sgabello al punto, quasi, di rovesciarlo. Negli assolo si incurva sul suo piano per tornare a suonare melodie più malinconiche e sognanti ed improvvisamente si interrompe ancora, rivolgendosi stavolta al fonico a voce alta… poi torna, come per magia, alla sua ispirazione e si uniscono nuovamente a lui gli altri tre.

Le interruzioni non finiscono e Calderazzo si volta di nuovo verso il pubblico prendendosela con qualcuno che lo disturba scattandogli foto dalle prime file: «You are kidding me!!» – «Mi prende in giro!!», esclama. Eppure, tra imprecazioni ed eccesso di esigenze, riesce comunque a mantenere il livello della sua performance alto ed interessante e lo sentiamo accompagnarsi canticchiando, forse per mantenere la concentrazione. L’ affiatamento del quartetto è altalenante e sentiamo in alcuni  momenti il pianista staccarsi dalla sezione ritmica per poi ritrovarla.

Mentre Hampden si fa sempre più leggero sulle congas, Brown pizzica con maggior enfasi le corde ed il batterista lascia il palco per un po’.   Calderazzo, conclusa la sua esecuzione, prende in mano il microfono e si rivolge alla persona che gli scattava foto “invadenti”. «Voglio dire: io non sono Keith Jarret, però… voi così vi prendete gioco di me!» afferma ironico, facendoci ridere ed imitando con la voce il suono dello scatto fotografico. Nasce, così, una discussione col pubblico, qualcuno afferma dalla platea che trovandosi in Italia lui si dovrebbe adeguare ma per tutta risposta il musicista fa presente che così il nostro Paese non si fa una gran reputazione. I toni, tutto sommato, non sono molto agitati e Calderazzo si dimostra una persona alla mano, sorridente, capace di scherzare sulla cosa.

Tornato sul palco Draughn, si allontana invece Hampden ed il ritmo si fa forsennato, mentre Brown guarda verso l’alto e pare particolarmente ispirato, pronto ad avviare una “conversazione” con Calderazzo che lo fa esclamare di gioia quando un passaggio difficile gli riesce bene. Joey Calderazzo inserisce le citazioni più curiose nel suo repertorio, accenna persino il tema  di “Happy birth day”. Hampden rientra, accompagnando stavolta col tamburello.

Giunti al momento delle presentazioni, Joey Calderazzo si avvicina al microfono per dirci come sia nato il sodalizio con questo trio di ragazzi, suoi allievi a New York che – ci dice – sono per lui un po’ come dei “figli” e ci introduce il brano “Hope” che interpreta da solo e senza amplificazione, dedicandolo al sassofonista Michael Brecker, suo mentore e caro amico di una vita, scomparso tre anni fa. Avvertiamo l’estrazione classica del pianista in alcuni passaggi di questo bellissimo pezzo, dalla melodia delicata ed intensa.

Si prosegue con un assolo del contrabbassista ed un nuovo solo del pianista, malauguratamente interrotto dalla suoneria di un cellulare che Calderazzo finisce ironicamente per imitare al pianoforte.

Laura Mancini

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