Nuovo album dei Take That: è davvero “Progress”?

 

Dimenticate il brit pop ballabile, i tormentoni ritmati e leggeri con strascichi di tanta musica inglese e americana degli anni ’80 (vedi i New Kids On The Block) creati a tavolino per attirare le ragazzine (ma legati ad una stagione) di “Take That & Party”, album d’esordio della band inglese. O il sound più melodico e romantico di “Everything Changes” (che ce li faceva associare agli Spandau Ballet) in cui il gruppo cominciava ad assumere un’identità più chiara e sempre più seducente. O ancora, i brani più maturi e le hit intramontabili di “Nobody Else” che hanno fatto apprezzare i Take That anche a chi fino ad allora li aveva creduti solo dei ragazzetti carini che si agitavano sul palco.

Dimenticate la bella voce di Gary Barlow sempre in primo piano nei brani e nei concerti del gruppo o quella di Robbie Williams che abbiamo potuto conoscere bene in tutto il mondo grazie alla sua carriera come solista. Non lasciatevi nemmeno ingannare dal singolo che Barlow e Williams hanno inciso insieme per il Greatest Hits di Robbie, Shame, operazione commerciale e tattica ben riuscita che ci fa assaporare un mix delle cifre stilistiche dei due artisti (Love is all around riecheggia tra gli accordi) in un testo allusivo che sembra parlare proprio del rapporto tra i due. Forviante, in fine, anche il primo singolo di lancio del nuovo album dei TT, The Flood che in parte si riallaccia alle ultime produzioni del gruppo in versione quartetto, aggiungendo il contributo di Williams: un brano ben costruito ed orecchiabile, caratterizzato da una discreta spinta ritmica – sebbene non travolgente – ma che, come Shame, non è assolutamente rappresentativo del lavoro svolto in “Progress”.

Dimenticatevi, in sostanza, i vecchi Take That, come li avevate visti crescere fino al 1995 e tornare alla ribalta dal 2005, perché in questo cd, pubblicato a sorpresa e preparato in grande segretezza dal quintetto, della vecchia boy band non c’è più niente ed in un certo senso il distacco radicale dal passato era quello che ci dovevamo aspettare perché Robbie Williams potesse sentirsi finalmente attratto dall’idea di una reunion.

I TT sono cresciuti, maturati, diciamo pure invecchiati e la formula che li vedeva adolescenti e bellissimi, ballare coreografie acrobatiche sul palco, tirare asciugamani alle fans deliranti (che rispondevano a suon di mutandine), fare battute un po’ sporche e provocanti, al ritmo travolgente di un pop firmato solo da Gary (e cantato prevalentemente da lui, mentre gli altri ballavano) non poteva più andare bene.  

I Take That in Progress

Robbie, Gary, Mark, Howard e Jason hanno composto tutti insieme ogni canzone di “Progress” e questa è la prima novità. Le voci di Barlow, Williams e Owen sono forse quelle che riusciamo ad identificare più facilmente ma tendenzialmente sono amalgamate con quelle degli altri due in un’esecuzione corale e, soprattutto, sono assolutamente in secondo piano rispetto alla parte strumentale ed elettronica, evidenziando un consistente lavoro di rielaborazione ed alterazione fatto in studio. Difficile, quindi, immaginare questo repertorio cantato dal vivo.

Gary Barlow è alle tastiere in ogni brano, Howard Donald suona la batteria in The Flood e Kidz.  Di Robbie Williams riconosciamo il contributo in alcune parti melodiche di Happy Now e di Wait (che nel ritornello, però, lascia identificare anche la penna di Barlow). Williams sembra tornare soprattutto alla fase compositiva che diede vita al suo “Rude Box” e anche qui attinge spesso alla dance anni ’80. In Sos ritroviamo gli spunti pop-rock che caratterizzavano “Life thru a lens” mescolati ad elementi disco ed atmosfere che ricordano i Pet Shop Boys (che pure hanno tanto influenzato Williams nella sua produzione) e lo stesso testo apocalittico non è sconosciuto allo stile di Robbie.

Kidz, uno degli esperimenti più incisivi dell’album, fa pensare, però, inevitabilmente a molti brani e autori del passato: i Gorillaz di Feel Good Inc o risalendo agli anni ’60, persino i Pink Floyd, il tutto riproposto in un arrangiamento anni ’80. Con Pretty Things, ancora in stile disco music, e i brani che seguono, l’album purtroppo subisce un calo; manca di energia, non coinvolge e suona già vecchio. In Undergroud Machine si sceglie un tempo di marcia come in Kidz, What do you want from me? ha un bel testo accorato e spunti melodici interessanti ma non è affatto esaltato dalla voce di Mark, limitata sia in potenza che in estensione, il quale forza sugli acuti trasmettendo un senso di sofferenza e riduce il brano in un lamento personale. Si prosegue con Affirmation e la conclusione ci riporta sullo stile di The Flood con Eight Letters che manca però della carica emotiva del primo, seguita in fine da una traccia nascosta.

Le storiche fans dei Take That potrebbero rimanere complessivamente deluse, constatando chiaramente che questi non sono più i “loro” Take That. Tutti gli altri, che magari precedentemente avevano snobbato il progetto confezionato da Nigel Martin Smith (ex manager dei TT), potrebbero cogliere l’opportunità di scoprire un progetto completamente diverso ed apprezzare lo sforzo fatto da quelli che possiamo considerare ormai a tutto titolo 5 musicisti, nel tentativo di liberarsi definitivamente da una vecchia etichetta e muoversi alla ricerca di una nuova identità. Resta da valutare, però, se il gruppo sia riuscito nell’intento o se questo “Progress” non sia piuttosto ancora un “Work in progress” verso una forma più definita, completa e originale.

Laura Mancini

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